La comunità ecclesiale è la casa di tutti, senza esclusioni o preferenze

OMELIA
XXVIII Domenica del tempo ordinario
Andria, Chiesa Cattedrale, 11 ottobre 2020.

Letture:
Is 25,6-10a
dal Sal 22 (23)
Fil 4,12-14.19-20
Mt 22,1-14

Siamo passati dal tema della vigna, presente nelle parabole delle passate domeniche, a quello della festa per eccellenza: la festa di nozze. È bene precisare subito che questa immagine Gesù la usa pensando al rapporto che Dio ha con il suo popolo e in definitiva, con l’umanità intera. Nella Sacra Scrittura, infatti, spesso Dio si paragona allo sposo che ama immensamente la sua sposa, l’umanità.
Ma nella nostra parabola di oggi si ripete la stessa scena della settimana scorsa: i servi inviati rappresentano i profeti e tutti quelli che provano ad annunciare il Vangelo, che è la buona notizia che nasce dalla proposta di un mondo giusto e bello. Purtroppo, però, spesso questa proposta non è accolta, anzi è snobbata se non addirittura rifiutata e i servi vengono addirittura uccisi. Proviamo a pensare lungo tutti i secoli da quando il Vangelo è stato annunciato, anche ai nostri tempi, quanti servi della Parola hanno pagato con la loro vita il servizio reso alla Parola.
La parabola prosegue mostrando un Re che, però, nonostante la schiera innumerevole di martiri, non si rassegna a vedere vuota la sala del banchetto e perciò, prosegue la parabola “disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.” Ecco, questa è la festa che Dio vuole, per tutti gli uomini, senza distinzione di popoli razza e condizione sociale. La salvezza di Dio è per tutti, proprio tutti, aperta a tutti e gratuita, senza nessuna discriminazione o differenze sociali. È il bello della comunità ecclesiale, che è per natura sua la casa di tutti, senza esclusioni o preferenze.
La parabola prosegue: “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. L’abito nuziale, secondo le consuetudini del tempo, veniva offerto a tutti gli invitati, quindi l’invitato che ne è privo non ha scuse. E proviamo a chiederci: a cosa possiamo paragonarlo oggi? L’abito dice chi voglio essere e cosa sto vivendo. Quello nuziale manifesta la mia adesione a fare festa, festa che è possibile se ognuno fa la sua parte. Paradossalmente l’abito nuziale rappresenta il cuore che si è lasciato contagiare dall’immensa generosità del re che mi ha invitato, senza mio merito o che ne resta distante. Ma non posso e non devo pretendere di entrare al banchetto senza lasciarmi toccare dalla grazia di Dio. Fuor di metafora: Non posso entrare mettendo in conto che uscirò con lo stesso cuore e la stessa testa con cui sono entrato. Mi devo lasciar contagiare dalla sorprendente gratuità di questo invito. In altre parole, mettere l’abito nuziale, è come rivestirsi di Cristo, come dice San Paolo.
Quello che la parabola di oggi mi chiede di fare è far sì che non accada che, ad esempio, vengo a messa per assolvere ad un obbligo religioso, per tradizione, per abitudine, per fare contento qualcuno, per paura di qualche conseguenza nefasta, ma non vado volentieri. La Parola della grazia, in quel caso, non mi sfiora nemmeno
Il Signore invita tutti, ma non sempre tutti aderiamo, perché non cogliamo la bellezza di quest’invito, preferiamo gioie passeggere che costano poco e illudono tanto. E, in definitiva dobbiamo ricordare che il Signore che pure ha accettato di subire la terribile passione e la croce per me, tuttavia non mi salva per “forza”, in maniera automatica. Devo aderire a Lui, devo dirgli un sì, devo permettere a Lui di agire nella mia vita lavorando nel mio cuore e aiutandomi così a guarire dal terribile male dell’egoismo. Non ci sono automatismi, alla grazia occorre rispondere sempre con la fede, una fede anche debole e fragile, come quella di tutti noi, ma una fede vera e autentica.
Ed è quello che chiederemo ora tutti insieme, andando all’altare.