Letture:
At 10,34a.37-43
Sal 117
Col 3,1-4
Lc 24, 13-35
Questa messa della sera con i suoi testi, vuol essere, per noi, come un mettere l’ultimo tassello ad un mosaico già bellissimo, stupendo, avvincente: la contemplazione del mistero della resurrezione di Gesù. Questo è il mistero centrale della nostra vita e della nostra fede. Tanto é vero che se Cristo non fosse risorto noi sicuramente non staremmo qui a fare tanta festa. Potremmo avere stima di Lui come abbiamo stima di tanti maestri dell’antichità che hanno detto delle cose belle, hanno lanciato dei principi morali altissimi. Infatti molte delle cose che ha detto Gesù le hanno dette anche profeti e maestri dell’Antico Testamento. Invece la novità sconvolgente, unica, incredibile di Gesù é proprio la sua resurrezione.
Ebbene noi oggi, a distanza di duemila anni, ci ritroviamo di fronte a questo mistero: un po’ ci crediamo e qualche volta dubitiamo; mentre siamo affascinati da questo mistero così grande, però poi dopo, guardandoci intorno e vedendo ancora tanti segni di morte, di dolore che affliggono l’umanità, siamo un po’ titubanti e diciamo: “Va bene! Cristo é risorto ma qui il mondo non cambia. Passano gli anni, passano i secoli, passano i millenni ma il mondo non cambia. C’è ancora tanto male, tanta sofferenza; ogni giorno, ogni istante.
E così facciamo festa, applaudiamo al Signore che é risorto, bravo Lui, beato Lui, però per noi non é cambiato niente. Ecco che la considerazione della Pasqua, a volte, si congiunge con una pensosità, con una tristezza nascosta che questo giorno dissimuliamo un po’, nascondiamo,. E così noi assomigliamo molto ai due discepoli di Emmaus, che abbiamo seguito nel racconto del Vangelo ascoltato.
Erano due dei tanti discepoli che avevano seguito Gesù, avevano anche abbandonato il loro paese, Emmaus, distante sette miglia da Gerusalemme, per stare dietro a Gesù e lì, a Gerusalemme avevano assistito da spettatori agli eventi incredibili della Passione del Signore. Loro avevano investito tutte le loro speranze su Gesù, un po’ come noi, loro avevano puntato molto su questo maestro, su questa figura affascinante, lo avevano seguito e però erano rimasti sconcertati, avviliti, distrutti nel vederlo finire in quel modo, in croce, con la condanna che si dava ai delinquenti più pericolosi. E allora la loro fede, la loro fiducia, le loro attese erano ormai crollate; se ne tornavano così a casa, parlando di queste cose.
Uno sconosciuto si accosta a loro, era Gesù, ma loro non lo riconoscono e già questo é strano. Ci possiamo domandare, dobbiamo chiederci: “Come mai non lo riconoscono? Lo conoscevano bene, erano i suoi discepoli, i suoi seguaci. E’ possibile che ad un certo punto non lo riconoscono?”.
Gesù era risorto e la condizione del Risorto é diversa dalla condizione di prima: Gesù é lo stesso però non é lo stesso. E’ contraddittorio questo discorso, lo so, però vuol dire che accostarsi a Gesù risorto non é la stessa cosa che accostarsi a un uomo qualunque, vivente fisicamente in mezzo a noi. La resurrezione é un mistero che ci chiede un supplemento di fantasia, direi, per arrivare alla fede; se vogliamo accostarci al Risorto con la mania, la pretesa di interpretare la fede con i nostri schemi scientifici, programmatici, non capiremmo niente, ne resteremmo fuori. La resurrezione é un mistero che esce fuori da ogni schema, da ogni programma, da ogni previsione. Non lo riconoscono! Non lo riconoscono perché il loro cuore é ancora legato al Gesù di prima, al maestro, ma ormai dire “maestro” é troppo poco. Ora bisogna dire “Il Signore”.
Dire “Il Signore” é molto di più che dire il “maestro”, perché di maestri ce ne sono tanti, di Signore ce ne é uno solo ed é Gesù Cristo. Allora loro sono un po’ interpellati, provocati da Gesù. Diremmo, con un po’ di umorismo, che Gesù forse si diverte a mettere alla prova questi due discepoli: “Che andate dicendo lungo la strada? Che sono questi discorsi che andate facendo?”. I due dicono: “Possibile? Non sai niente?”. “Niente! Cosa é successo?”. “Tutto quello che é successo a Gerusalemme del nostro maestro, del nostro Gesù? Egli aveva fatto tanto bene, miracoli, segni ecc.., però é morto. Noi speravamo che fosse Lui a ricostruire il regno d’Israele, ma ormai é morto, é finito, un sogno infranto, una speranza delusa, per cui noi torniamo a casa. Non cambia niente, non é cambiato niente, non cambierà mai niente.”
Ecco perché dicevo i nostri discorsi, il nostro vivere la fede assomiglia molto a questi due discepoli. Noi ci crediamo, però forse ci crediamo più come un fatto d’abitudine, più come un fatto che é un po’ come una nostra seconda pelle, ma non é che ci crediamo davvero al punto tale da lasciarci sconvolgere e travolgere da questo mistero.
“Noi speravamo!”. Anche noi diciamo così tante volte, usiamo i verbi della speranza al passato: “Noi speravamo! Ma adesso ormai non speriamo più! Le delusioni, le tristezze della vita ormai ci hanno segnato per sempre. Noi speravamo!”.
Allora Gesù comincia a riportare questi due discepoli da una dimensione umana delle cose a una dimensione spirituale. Prende la Scrittura e comincia a citarla, comincia a dire tante cose, a leggere la Parola di Dio. Possiamo dire che l’episodio dei discepoli di Emmaus é un po’ come la nostra messa, la prima parte, la liturgia della parola, una liturgia itinerante, in cammino, a ricordarci che noi come popolo di Dio non dobbiamo essere dei sedentari ma un popolo in cammino e la Parola di Dio deve essere sempre suscitatrice di cammini, di passi nuovi, di sforzi nuovi. E’ una Parola che ci smuove. E difatti così fu per i due discepoli di Emmaus. Loro sentivano che mentre Gesù parlava il cuore bruciava, non si riuscivano a spiegare il perché, però sicuramente avvertivano qualcosa, anche se non lo sapevano ancora definire. Finisce il cammino, arrivano a casa e secondo le regole dell’ospitalità ebraica offrono allo sconosciuto la possibilità di restare, anzi gli chiedono: “Dove vai? E’ tardi, rimani con noi. Ormai si é fatto buio. E’ sera!”.
Gesù rimane e c’é una bella espressione del Vangelo: Gesù entrò per rimanere con loro. E si ferma con loro a cena, a mensa, e lì Gesù compie un gesto, un gesto che era rimasto impresso nei discepoli, si era parlato di quel gesto che Gesù aveva fatto nella cena: aveva preso il pane, lo aveva spezzato e lo aveva dato ai dodici e aveva detto: “Prendete e mangiate questo é il mio corpo”.
Gesù quella sera fa lo stesso gesto ma non smette di farlo che scompare dalla loro vista. Che strano! Il Vangelo però ci dice un particolare: mentre Gesù fece quel gesto lo riconobbero. “Questo é Gesù! Non ce ne siamo accorti prima. Certo, mentre parlava si sentiva qualcosa nel cuore ma adesso siamo sicuri, é Gesù.” Però Gesù scompare alla loro vista.
Qual è la reazione dei due discepoli? Si dispiacciono? Si mettono a piangere? Della serie: “Che peccato! E’ andato via proprio adesso che lo avevamo riconosciuto.” No! Gesù una volta che si é fatto riconoscere scompare, non serve più la sua presenza, non serve più la sua apparizione. Ormai i discepoli hanno capito: E’ vivo! E’ risorto! Allora le cose che avevano detto le donne non erano chiacchiere, non erano vaneggiamenti, non erano sogni, era vero che Gesù era risorto.
Che cosa fanno? Tornano a Gerusalemme. Avevano fatto il viaggio di andata tristi, piangenti quasi, fanno il viaggio di ritorno di corsa, perché hanno una notizia sconvolgente da portare ai discepoli, agli altri. I quali nel frattempo, stando a Gerusalemme, stando nel Cenacolo, avevano avuto anche loro altre apparizioni, per cui quando loro arrivano e portano la notizia “Abbiamo visto il Signore!”. “Sì, anche noi lo abbiamo visto! E’ venuto qui. Raccontate voi. Raccontiamo noi.” Ecco ci si comunica la fede e da questa fede comunicata nasce la Chiesa, come comunità dove si condivide la fede come gioia.
Che cosa é la Chiesa? L’ho detto tante volte, ma lo ridico ancora tantissime altre volte. La Chiesa non é un luogo dove si va a pagare il tributo a Dio. La Chiesa non é il luogo dove si va a fare il dovere, magari sbuffando, magari noiosamente, magari trovando a volte mille scuse per non andare. La Chiesa é il luogo, la Chiesa é la casa, la Chiesa é la famiglia dove si condivide la gioia della fede, dove si vive la fede come fatto comunitario; dove ognuno comunica, trasmette ai fratelli la gioia del suo credere. Questa é la Chiesa! E’ il luogo dove si vive la fede come gioia di vivere, dove si vive la fede come incontro perenne, continuo, sempre nuovo col Cristo risorto.
Ecco il Vangelo dei discepoli di Emmaus che davvero interpreta stupendamente la nostra fede alla sera di Pasqua. Siamo stati raggiunti dall’annuncio della Pasqua, però anche noi forse come i discepoli siamo un po’ titubanti, timorosi, paurosi. Mentre crediamo, poi accade qualcosa e non crediamo più. Questa sera la Parola di Dio ci ha ricordato questa parola stupenda: la fede nasce, matura, si sviluppa, cresce dentro una comunità che celebra la sua fede. La fede non é un’avventura privata. La fede é un fatto eminentemente comunitario, di famiglia, di popolo. La fede nasce laddove c’é un pane che si spezza – “riconobbero Gesù allo spezzare il pane” – allora capirono: E’ risorto! Anche noi spezzeremo il pane sull’altare stasera e anche i nostri occhi in quel momento si apriranno perché si ripeterà quel gesto e anche noi come gli apostoli in quel momento, come i discepoli di Emmaus, riconosceremo il Signore ed esulteremo nella gioia dicendo: “Davvero il Signore é risorto!”.
Ed ora che é risorto, dov’é? Visto che non é più nella tomba, dov’è? E’ vivo! E’ presente in mezzo a noi, é presente e vivo proprio in quel pane che si spezza sull’altare. Ma non soltanto sull’altare, anche nel pane che si spezza nelle nostre case: il pane dell’Amore, il pane della condivisione, il pane del perdono, il pane della solidarietà, il pane della pazienza, se volessimo ripercorrere tutti i temi che abbiamo meditato durante la Quaresima, sarebbe davvero un bel ripasso…
Dov’é il Risorto? Il Risorto é laddove c’é un pane che si spezza; laddove c’é qualcuno che spezza il pane; laddove c’é qualcuno che vive l’Amore. Dov’é la Chiesa? Dentro queste mura? Può darsi, ce lo auguriamo. La Chiesa é laddove si spezza il pane. Per cui può accadere che noi qui dentro potremmo anche non essere Chiesa. Il fatto di stare dentro un luogo vuol dire tanto ma forse può anche non voler dir proprio niente. La Chiesa é laddove si spezza il pane, laddove si vive l’Amore. Per cui se nelle nostre case si spezza il pane del perdono anche della solidarietà, allora c’é il Risorto. Se il nostro pane non si spezza perché si accumula e si ammassa nei nostri granai e non c’é lo sforzo dell’Amore, del perdono, della condivisione, allora vuol dire che il Venerdì Santo non é ancora finito, non é ancora passata l’ora della croce e della sofferenza per tanti nostri fratelli.
Ci fermiamo qui con questa nostra riflessione che deponiamo ai piedi del sepolcro vuoto. Ecco, viviamo questi giorni della Pasqua con lo stupore addosso, con la gioia di aver scoperto questa verità per la nostra vita che dà spessore, grinta nuova al nostro vivere e al nostro sperare. Perciò i verbi della Pasqua non sono al passato “noi speravamo….”, ma al presente: noi speriamo, noi crediamo, noi amiamo. Oggi, qui, al presente!!