Omelia III Domenica di Pasqua

01-05-2022

Letture:
At 5,27-32.40.41
Sal 29
Ap 5,11-14
Gv 21,1-19

Ci ha detto san Giovanni nella pagina evangelica che abbiamo ascoltato che questa era la terza volta che Gesù andava dai suoi discepoli. E questa volta, abbiamo subito notato, è molto diversa dalle due. Mentre le altre due volte Gesù è andato nel cenacolo a porte chiuse a rincuorare i suoi discepoli, questa volta il Signore va a trovare i suoi discepoli “sul posto di lavoro”, potremmo dire. Loro erano andati a pescare, però in quella notte non presero nulla. In questo momento di sconforto, di scoraggiamento, per una pesca andata a vuoto, ecco che si rende presente Gesù risorto e dice agli apostoli: “Vorrei mangiare qualcosa”, e gli apostoli rispondono: “Veramente non abbiamo preso nulla. Abbiamo faticato tutta la notte”. Gesù dice: “Gettate la rete dalla parte destra e vedrete che prenderete qualcosa”. E così fu.

Vedete, questo racconto – è la prima parte del vangelo di oggi – oscilla tra la realtà e il simbolo. Che voglio dire? Dovremmo ricordare quel momento in cui Gesù all’inizio della sua missione sempre sul mare di Galilea era andato a chiamare quattro pescatori, i primi e aveva detto loro: “Venite con me. Io vi farò pescatori di uomini”, e loro avevano lasciato tutto e si erano messi dietro a Gesù. Erano passati tre anni e in questi tre anni sempre dietro a Gesù, avevano ascoltato la sua parola, avevano imparato tante cose ma avevano mostrato a Gesù di essere uomini molto fragili, molto limitati. Quante volte Gesù durante la vita pubblica li aveva rimproverato anche con durezza, dicendo che erano uomini dalla testa dura, uomini dal cuore duro, perché non sempre capivano. Infatti capitava spesso che mentre Gesù diceva delle cose eccelse, loro invece si facevano sorprendere che litigavano o parlavano di altro, e poi soprattutto la grande delusione della passione quando erano scappati tutti e lo avevano lasciato solo.

Ecco, dobbiamo ricordare allora che Gesù non ci chiama a raccogliere successo, nemmeno Lui ha raccolto il successo, Lui sulla croce è rimasto solo, quindi dobbiamo passare un po’ tutti quanti attraverso questa trafila, la trafila del fallimento perché dobbiamo sperimentare quello che siamo: siamo povera gente, siamo fragili, siamo peccatori, traditori certe volte. E allora tutto, a un certo punto, porta alle sue conseguenze: se già noi chiesa siamo così, che cosa vogliamo dagli altri, da quelli ai quali portiamo la Parola? Allora questo fallimento ci brucia sulla pelle. Però falliamo anche per un altro motivo: noi molto spesso operiamo contando, facendo leva sulle nostre capacità, sui nostri saperi, sulle nostre abilità e dimentichiamo che invece è il Risorto che opera nel cuore degli altri; e noi certe volte non predichiamo il Risorto, predichiamo noi stessi, non mettiamo Gesù al centro di tutto, ma ci mettiamo noi, le nostre persone, le nostre abilità, le nostre capacità, i nostri meriti ed è chiaro che a quel punto possiamo fare anche le cose più solenni e più belle del mondo ma si rivelano fallimentari. È solo per la parola di Gesù che quella rete si riempie.

Ecco dunque Gesù che dice: “Rigettate di nuovo la rete sulla parte destra”. La rigettarono e la rete si riempie. Una piccola annotazione apparentemente marginale ma importantissima: nonostante fossero tanti, la rete non si rompeva. Ecco il miracolo della Chiesa: che da duemila anni nonostante siamo tanti, con tante miserie, tante fragilità, la Chiesa, questa rete prodigiosa e misteriosa, non si rompe, va avanti nella storia. Perché? Vien da chiedersi. Perché la Chiesa non si fonda sugli uomini, gli uomini passano, noi passiamo come sono passati tanti altri prima di noi; ma ciò che regge e che fa vivere e riempire la rete della Chiesa è la grazia del Signore Risorto, per cui tutto questo ci dà coraggio, ci dà animo a tentare infinite volte e a fare anche tesoro degli insuccessi e dei fallimenti per dire: “Signore, aiutaci a convertirci. Se le cose non vanno bene, evidentemente ancora non ti abbiamo messo al centro di tutto, ancora portiamo avanti noi stessi e vogliamo fare le cose per dirci poi che siamo stati bravi, che è stato bello. Ma ci accorgiamo che Gesù diventa il grande assente di tutto questo”. Non è così che deve procedere la Chiesa!

Poi c’è la seconda parte del Vangelo, anche quella molto intensa, molto bella. Dopo che mangiano insieme il pesce che hanno pescato, Gesù si rivolge a Pietro: “Simone di Giovanni mi ami tu più di costoro?”. Questa domanda sorprende Pietro, non se l’aspetta, anche perché sicuramente lui sta vivendo dei giorni con un po’ di amarezza nel cuore, con mille scrupoli per tutto quello che ha combinato la notte del processo quando ha rinnegato Gesù. “Certo, Signore!”, risponde Pietro. “Tu lo sai che io ti amo”. E poi la seconda volta: “Simone ma tu mi ami?”. “Certo Signore. Te l’ho detto. Io ti amo!”. E poi Gesù lo chiede ancora per la terza volta. E qui Pietro capisce la lezione perché san Giovanni, che racconta, annota: “Pietro rimase amareggiato che Gesù glielo avesse chiesto la terza volta”. Avrà pensato: “Ma perché me lo chiede ancora? Non mi crede?”. Non è che Gesù non gli credeva, è che Gesù gli voleva dire: “Vedi, io ti costituisco pastore della Chiesa non perché sei il più bravo, perché non lo sei, non ci sono bravi e meno bravi, siete tutti della stessa pasta”. Sì, siamo fragili e peccatori, Gesù si fida non perché noi gli possiamo promettere la perfezione, ma unicamente in base a quell’amore che gli dichiariamo, perché quando Pietro per la terza volta gli dice: “Signore, tu sia tutto, tu sai che ti amo ma e sai pure che da un momento all’altro ti posso tradire come ti ho già tradito. Questo sono io”. E Gesù che dice a Pietro: “Pasci le mie pecorelle. Non ti preoccupare, lo so che non sei perfetto, ma tuttavia, poiché hai detto che mi ami basta questo per dirti: vai, pasci le mie pecorelle”.

Gesù ci affida dei compiti, questa è una regola che vale sempre nella Chiesa. Tante volte non è compresa e diventa fonte anche di tanti dispiaceri. Quando si distribuiscono i compiti nella Chiesa non si va per via di meriti: “A te questo perché sei più bravo!”, no, non è così ma unicamente in base a un atto d’amore gratuito che Dio fa. Se io guardassi indietro alla mia storia personale di ragazzo, quando ero in seminario e studiavo, posso dire, mettendo la mano sul fuoco, che c’erano tanti ragazzi che erano migliori di me da tanti punti di vista, ma non sono diventati sacerdoti, il Signore li chiamava su altre strade; quindi posso dire che se sono quello che sono non è perché me lo merito, ma unicamente perché il Signore si è fidato di me. Ma questo lo dovremmo dire tutti; usciamo dalla concezione del merito, qui nessuno merita niente, tutto è solo e sempre grazia! Ogni mattina apriamo gli occhi e proviamo a dirci: “Bene, il Signore non si è ancora stancato di me. Si fida di me. Mi chiede soltanto: Mi ami tu?”. La nostra dovrebbe essere una risposta sincera, consapevole anche dei nostri limiti, le nostre resistenze, non importa, purché siamo sinceri quando Gesù ci chiede: “Mi ami tu?”. E io penso che quest’oggi nessuno di noi avrà cuore di rispondere in maniera diversa da Pietro: “Signore, tu sai tutto, tu lo sai che io ti amo!”.