Omelia XI Domenica del Tempo Ordinario anno A

18-06-2023

Letture:
Es 19,2-6a;
Sal 100;
Rm 5,6-11;
Mt 9,36-10,8

         La nostra riflessione sulla parola di Dio di oggi prende l’avvio proprio dall’ultima battuta che abbiamo letto nel Vangelo. Gesù sta parlando ai suoi discepoli, ai dodici e dice così: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Noi siamo invitati a prendere coscienza di una cosa importante che a volte dimentichiamo, cioè che noi siamo qui per grazia, la salvezza non ci è dovuta. Per un disegno misterioso della provvidenza divina a noi è toccato questo dono, il dono della fede. È un dono gratuito, non ci dobbiamo fare “belli” di fronte a nessuno ma dobbiamo sempre ricordare comunque che essendo un dono, non è un diritto.

Di fronte al dono uno che fa? Prima ci si stupisce e poi si ringrazia. Allora nella fede l’atteggiamento fondamentale è proprio questo, lo stupore e dire: “Signore, tu mi hai donato la fede, mi hai donato la tua grazia, che ci trovi di buono in me per darmela? Perché me l’hai data?”. E certamente il Signore mi risponde: “Te l’ho data per amore. Gratuitamente avete ricevuto”. Dunque la fede ci mette di fronte a Dio nell’atteggiamento dell’umiltà. “Gratuitamente avete ricevuto – dice Gesù – gratuitamente date”. Che cosa dobbiamo dare? La stessa grazia che abbiamo ricevuto.

Non è che la diamo materialmente, però la testimoniamo, l’annunciamo, la realizziamo nelle opere, sicché la stessa grazia che è arrivata a noi possa arrivare a tutti. Dio così procede, il suo obiettivo finale è la salvezza di tutti. Dio questo vuole: che tutti gli uomini siano salvi, che tutti gli uomini siano felici. Però storicamente Dio come fa ad arrivare a tutti? Comincia con alcuni e a questi fa i suoi doni dicendo: “Ecco, io li do a voi. Voi però li testimoniate, li annunciate e fate in modo che gli stessi doni arrivino anche agli altri”. Il cristiano dunque è colui che riceve ma è anche e soprattutto colui che dà.

Questa è la chiave di lettura della parola di Dio di oggi. Prendiamo l’Antico Testamento, la prima lettura. Gli ebrei sono appena usciti dall’Egitto, hanno attraversato il deserto, stanno per entrare nella terra promessa e Dio dice al popolo per mezzo di Mosè: “Vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto, vi ho condotti per mano lungo tutto il deserto fino alla terra promessa. Adesso voi, che avete ricevuto tanto, ricordatevi che avete un impegno, una responsabilità, quella di far vedere agli altri le cose belle e grandi che sa fare Dio. La vostra testimonianza è importante perché gli altri, vedendo voi, possano dire: che popolo fortunato perché ha un Dio così stupendo! Anche noi vogliamo fare nostro questo Dio; il vostro Dio deve essere anche il nostro”. Ecco che la testimonianza genera nuove persone che accolgono Dio. Voi siete per me – dice il Signore al popolo d’Israele – una nazione santa, un popolo di sacerdoti. Voi con la vostra vita e con la vostra testimonianza dovete testimoniare in tutto il mondo, a tutti gli uomini il vostro Dio, così tutti gli altri uomini, vedendo voi, possano innamorarsi di questo Dio e accoglierlo nella loro vita. Ecco allora che il desiderio di Dio di salvare tutti gli uomini si realizza così, attraverso di noi. Dio ha bisogno degli uomini? Di per sé no, di per sé Dio può fare tutto da solo, però Lui sceglie di farsi aiutare dagli uomini. Dice un’antica canzone medievale: Dio non ha mani, ha solo le nostre mani; Dio non ha piedi, ha solo i nostri piedi per andare verso gli uomini.

Nella prima lettura vediamo quello che si è realizzato con l’antico popolo d’Israele, nel Vangelo quello che si realizza con il nuovo popolo Israele: lì erano dodici tribù, qui adesso sono dodici apostoli. Il numero è chiaramente evocativo, è la nuova alleanza, il nuovo Israele, il nuovo popolo di Dio che Gesù fonda chiamando dodici persone. Avete sentito i nomi, uno dopo l’altro, nomi, storie, vicende umane. Questo numero dodici, consacrato con gli apostoli, ci sta a dire che con Gesù nasce un nuovo popolo di Dio, il popolo della nuova alleanza e quello che anticamente era del popolo d’Israele adesso è del nuovo popolo. E questo nuovo popolo di Dio siamo noi, la Chiesa. Allora anche a noi è affidato lo stesso compito che era affidato all’antico Israele: annunciare al mondo quanto è buono, quanto è grande, quanto è bello il nostro Dio. Annunciarlo dunque con le opere e con la vita.

Alla luce di questa riflessione sviluppata torniamo alla frase da cui siamo partiti: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. La Chiesa deve essere una comunità nella quale si respira l’aria della gratuità, dove una qualsiasi cosa che viene fatta la si fa per amor di Dio, per amore del Vangelo, per amore del regno di Dio e non per meritare consensi, per chiedere applausi o per arraffare posti di prestigio magari sgomitando verso gli altri. Tutto quello che si fa, dal servizio più umile al più importante, siamo tutti umili servitori, umili lavoratori nella vigna del Signore, ognuno ha il suo compito ma tutti lavoriamo per lo stesso scopo: Annunciare l’amore di Dio e non solo con le parole, perché è facile dire parole, ma annunciarlo con la vita, annunciare l’amore di Dio per gli uomini, per tutti gli uomini di ogni tempo, di ogni età, di ogni condizione sociale. Dio non ha preferenze, ama tutti, ma se proprio poi ha delle preferenze queste sono per i poveri, per gli ultimi, per gli sfortunati, per coloro che patiscono ingiustizia a causa della cattiveria dei fratelli. Quelli sono i preferiti di Dio, il mondo li scarta, il mondo li calpesta e Dio li chiama a sé. Ecco allora il senso delle beatitudini: ogni uomo, anche il più sfortunato deve sapere che Dio è dalla sua parte, se ha sofferto in questa vita, Dio lo ricompenserà.

Allora chiediamo al Signore di fare nostra questa riflessione, di portarla davvero nel cuore; chiediamo al Signore che ci aiuti a non smettere mai di stupirci, a saperci stupire della gratuità con cui Lui ci fa i suoi doni ma a saper essere anche noi meno misurati, meno programmati, più generosi, più gratuiti nel fare del bene intorno a noi.